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Arrivo tardi nel dibattito infuocato sull’intervista di Bruno Vespa al figlio del boss Totò Riina, ma solo perché prima ho voluto assistere allo spettacolo dell’indignazione, quella autentica e quella telecomandata. L’intervista al figlio di un boss l’avrebbe qualunque giornalista, inutile prenderci per i fondelli.

Ma non basta trovarsi faccia a faccia con il figlio del padrino di Cosa Nostra: bisogna anche capire chi conduce l’intervista, e soprattutto a che prezzo. Il prezzo, in questo caso, è quello di un libro che celebra una famiglia mafiosa, anche senza parlare apertamente di mafia. Riina junior non sarebbe andato da Vespa se non avesse dovuto fare promozione. E il giornalista, che lo sapeva bene, avrebbe quantomeno dovuto fargli pagare il prezzo della pubblicità con le stesse domande pungenti che pone ai poveri sventurati senza nome e cognome.

La differenza tra Vespa ed Enzo Biagi (citato proprio dal conduttore di Porta a Porta) sta in questo aspetto: rischiare di essere mandato a quel paese pur di mettere in chiaro che i pranzi amorevoli in casa Riina erano finanziati da stragi e morti spappolati. Che l’idilliaca famiglia del capomafia aveva distrutto decine di altre famiglie. Ma Vespa sapeva di non poter andare troppo oltre: Riina junior ha firmato la liberatoria solo dopo aver concluso l’intervista. Non prima, come fanno tutti: dai politici ai magistrati. Del resto, i metodi mafiosi si imparano da piccoli. E ci sono ‘offerte’ che non si possono rifiutare.

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