Più è alto il numero degli scandali che scuotono la nostra sensibilità, più siamo assuefatti all’idea che nulla sia come appare. Eppure, ogni volta che sento di un imprenditore schierato apparentemente contro la mafia, quando è proprio la piovra a proteggerlo, non posso non pensare al grande rischio che corriamo nel credere alle ‘etichette’.
In Sicilia il marchio ‘antimafia’ è diventato un lasciapassare per incarichi, ascese sociali, salotti esclusivi. Non c’è da stupirsi, dunque, se anche gli stessi mafiosi accettino di essere insultati in pubblico dalle proprie ‘pedine’, in cambio della quasi intoccabilità. Del resto, chi si sognerebbe di scavare negli affari di uno che ha denunciato le cosche, che parla ai ragazzini di legalità, che arringa le folle con slogan coinvolgenti? Quasi nessuno, a dire il vero.
Ma a volte succede: come è accaduto nell’inchiesta che ieri ha portato all’arresto dell’imprenditore trapanese Vincenzo Artale, finito nelle trame di un’indagine molto più ampia sulla ricerca del latitante Messina Denaro. Artale, che non sapeva di essere intercettato, toglieva la maschera da paladino della giustizia e piazzava il suo calcestruzzo grazie alla protezione del boss di Castellammare del Golfo. Perché gli affari vengono prima di tutto.