Vi auguro di non assistere mai alla straziante telefonata di una donna che ha perso da poco il marito: suicida, con un colpo di pistola alla testa, dopo che una sentenza ha distrutto tutte le sue certezze. Dopo che il dipendente comunale che aveva denunciato nel lontano 1993, e che era stato condannato in primo e secondo grado per concussione, si è visto prima accogliere un ricorso in Cassazione e poi assolvere definitivamente da una corte di Appello.
Troppo per un uomo che aveva passato vent’anni dietro carte e memorie processuali: che aveva sperato di veder trionfare (anche se tardi) la verità. E invece quando il suo avvocato al telefono gli ha riferito che nessuno lo avrebbe risarcito; che il suo avversario l’aveva fatta franca per sempre, lui non ha retto. Ha preso la sua pistola e l’ha fatta finita.
Non mi interessa commentare una sentenza: ipotizzare se sia giusta o sbagliata. Però permettetemi di chiedere a me stesso se sia giusto attendere 23 anni prima di conoscere un verdetto definitivo. Se sia umano, per chiunque di noi, percorrere un calvario così lungo prima di ottenere una risposta dalla Giustizia. Prima di capire che è stato tutto tempo perso.