Sono finiti i vecchi tempi in cui i ‘segreti’ si confidavano di presenza; si sussurravano a bassa voce tra i corridoi dei palazzi di giustizia o delle caserme. Adesso la tecnologia – da una parte amica fidata, dall’altra insidiosa incognita – rischia di mettere nei guai le fonti dei giornalisti.
Al tribunale di Palermo è successo appena qualche giorno fa. La notizia, riportata dall’Ansa, riguarda indirettamente proprio un ex giornalista dell’agenzia, Lirio Abbate, da tempo approdato a l’Espresso. Il suo indirizzo sarebbe stato inserito da un’impiegata del palazzo di giustizia (ora rinviata a giudizio) nella mailing list dei magistrati della Dda. Risultato? Per una ventina di giorni, Abbate avrebbe ricevuto tutti i verbali delle riunioni settimanali della direzione antimafia. Almeno fino a quando un magistrato se n’è accorto e lì sono cominciati i guai.
L’impiegata, inchiodata da una perizia informatica, ha provato a giustificarsi sostenendo di aver spostato per sbaglio la mail di Abbate dall’indirizzario dei cronisti che ricevono i comunicati stampa a quello dei magistrati. Purtroppo per lei, però, il contatto del cronista figurava sia nell’uno che nell’altro elenco. Tecnologia beffarda, almeno quando non la si sa usare. In questo caso, non sarebbe meglio una chiacchierata al bar?