Cinque anni di galera senza battere ciglio. Totò Cuffaro li ha subiti, li ha superati e da politico vecchia scuola quale è adesso sa che nessuno potrà più sbatterglieli in faccia, come accade a quelli che accusano lo ‘Stato assassino’ un giorno si e un giorno sempre anche quando sanno che dovrebbero stare zitti.
L’accusa di favoreggiamento aggravato Cuffaro non se la nega: dice di “essere andato a sbattere contro la mafia” ma che ha capito quanto faccia schifo, quanto sia allettante per le fasce povere e degradate della società. Del primo Cuffaro (quello dei cannoli) e del secondo (quello della redenzione tra le sbarre di Rebibbia) è rimasta solo la bravura nell’eloquio. La stazza fisica è sfumata; i baci a destra e a manca pure, probabilmente perché adesso non serve più a nessuno. Il secondo Cuffaro, ex politico, ex potente di Sicilia è un uomo che vuole dedicarsi all’Africa e ai detenuti.
E tra le tante parole, miste a qualche lacrima, c’è un concetto che condivido pienamente nel suo ragionamento: le carceri italiane sono una tomba. Un luogo in cui il male ristagna; dove i detenuti che si ammazzano superano quelli che vengono uccisi nei Paesi in cui vige la pena di morte. Dove non esiste recupero o riscatto, soprattutto per chi è condannato all’ergastolo. Ha ragione Totò quando parla di ipocrisia. Lui l’ha conosciuta a tutti i livelli: dentro i palazzi affrescati e dietro le sbarre. Cambia il contenitore, ma non il contenuto.