Ho sempre stimato gli artisti poliedrici; quelli che contestano il potere; quelli che stanno dalla parte del popolo e lo difendono. Quelli, insomma, che quando raggiungono la fama e la gloria non dimenticano di botto da dove sono venuti e chi li ha sostenuti, come spesso invece fanno certi politici paraculi il giorno dopo le elezioni.
Mi dispiace, e non sono affatto paraculo nel dirlo, che un artista come Vinicio Capossela sia scivolato ieri idealmente su una buccia di banana, negandosi alla curiosità dei cronisti – giovani colleghi di Radio Zammù – che intendevano rivolgergli qualche domanda sulla sua ultima fatica letteraria, “Il paese dei coppoloni”. Non vi nascondo che avrei voluto addentrarmi nella lettura dei Coppoloni di Vinicio, e che avevo chiesto al collega incaricato di intervistare il musicista-scrittore, di procurarmi una copia del libro.
Sinceramente, dopo aver saputo della reazione quantomeno scortese dell’autore e del suo staff di comunicazione, ho deciso che questa lettura non mi interessa più e probabilmente nemmeno quello che ha da dire Vinicio Capossela. Non perché ci sia rimasto male, ma perché odio quella caratteristica che nella filosofia popolare sicula viene dottamente definita “sboroneria”. A quanto pare ha ragione Vinicio: viviamo proprio in un Paese di Coppoloni.