Una tassista viene violentata a Roma da un insospettabile cliente: il solito tipo qualunque, trentenne, che ostentava foto da bimbominkia su facebook, prima che la sua bacheca – assalita da commenti di gente ragionevolmente incazzata - fosse oscurata dal gestore.
Lui, lo stupratore, padre peraltro di una bambina di 7 anni, viene preso in 48 ore e confessa subito. Ai magistrati dice che è stato un “raptus”, un istinto incontrollato e incontrollabile cui non è riuscito a opporsi. Confessa come se stesse raccontando di aver rubato al supermercato o di aver imbrattato il muro della scuola. Probabilmente è questo dettaglio, al netto della violenza brutale, a far inorridire di più. La scusa del “raptus” oramai è una moda: c’è qualcuno che se ne fa scudo quasi per allontanare da sé ogni responsabilità. Si uccide la fidanzatina per colpa del raptus, si stupra la tassista in preda a un raptus. I delinquenti più astuti riescono pure a farsi credere pazzi per limitare al minimo la permanenza nelle patrie galere.
Ma quando finirà la rabbia a orologeria della gente, che oggi invoca il linciaggio contro il mostro, o dei politici alla Salvini, che cavalcano l’onda populistica chiedendo la castrazione chimica, rimarrà il dramma e il danno. La donna aggredita non sarà più la stessa: probabilmente non tornerà mai più a svolgere il suo lavoro come prima. La società è responsabile, anche se oggi tutti chiedono maggiori controlli e sicurezza, videosorveglianza, garanzie. Tra due giorni saremo concentrati sull’ennesimo fatto di cronaca, sull’ennesimo omicidio, sull’ennesimo raptus. Perché le vittime, in questo Paese che dimentica, non mancano mai.